XI
I giudici contro Berlusconi. Bertinotti contro Prodi
E Di Pietro disse: «Io quello lo sfascio»
La storia italiana dell’ultimo decennio (1994-2004) si articola su due binari. Il primo è politico. L’introduzione del sistema elettorale maggioritario ha favorito il bipolarismo, concentrando l’attenzione e le attese dell’opinione pubblica sui leader dei due schieramenti. Dopo il terremoto del 1994, Berlusconi è caduto per le ragioni che abbiamo visto, il centrosinistra ha governato con Dini (per interposta persona), Prodi, D’Alema e Amato, il centrodestra è salito di nuovo al potere nel 2001 con il Cavaliere. Il secondo binario è giudiziario. Dopo aver abbattuto la classe dirigente della Prima Repubblica (con l’esclusione del Pds), la magistratura ha esercitato su Berlusconi una pressione che non ha precedenti nella storia giudiziaria del nostro paese e ha influito pesantemente sulla vita politica.
Sul ciclone giudiziario di Tangentopoli, questo è il parere di Berlusconi: «Si è eliminata un’intera classe politica che era stata per cinquant’anni il riferimento del mondo occidentale. Gli storici partiti di governo dal dopoguerra in poi – Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli – non hanno potuto presentarsi con il loro simbolo alle elezioni politiche del 1994. Se questo non è un terremoto…».
Perché è accaduto tutto questo? «Da un lato c’era una società politica di mestiere con tutti gli eccessi e le conseguenze che questo comporta. Dall’altro si deve riconoscere che la cura è stata traumatica oltre ogni limite. Dal 1992 in poi, la sinistra che aveva occupato i posti chiave della magistratura ha svolto un’attività giudiziaria collaterale a quella dei partiti dello stesso orientamento.»
Nell’estate del 1994 i rapporti tra Berlusconi e Di Pietro erano buoni. «Quando gli offrii il ministero dell’Interno» mi raccontò il Cavaliere «mi disse che avrebbe accettato, se Scalfaro non fosse intervenuto su Borrelli per fermarlo.» Confermò Paolo Cirino Pomicino: «Nel luglio 1994 al palazzo di giustizia di Milano Di Pietro mi raccontò che avrebbe accettato di entrare nel governo Berlusconi se Scalfaro non glielo avesse impedito».
Berlusconi e Di Pietro avevano un amico comune, l’imprenditore Antonio D’Adamo, che con il magistrato – come vedremo – fu assai generoso. «Quando ricevetti l’invito a comparire dalla Procura di Milano» mi confidò Berlusconi «mi chiamò D’Adamo: dottore, non si preoccupi, Di Pietro sta dalla sua parte, non consentirà a quelli del Pool di mettere in atto il loro disegno.» (Anche Paolo Pillitteri, ex sindaco socialista di Milano e cognato di Craxi, era convinto che Di Pietro e, addirittura, Borrelli fossero «amici» e, dopo l’arresto di Mario Chiesa, disse al segretario socialista di non preoccuparsi.) Il Cavaliere confermò questa circostanza alla fine del 1996 dinanzi ai magistrati di Brescia. «Non mi meravigliai» mi precisò ancora Berlusconi «perché da prima che io formassi il governo e fino all’autunno del 1995 D’Adamo mi ha portato i saluti e gli attestati di amicizia di Di Pietro.»
Nel capitolo precedente abbiamo visto come Borrelli avesse dichiarato la disponibilità dei procuratori di Milano ad assumere responsabilità d’emergenza qualora il capo dello Stato lo avesse richiesto. Bene, nell’estate del 1994 Di Pietro aveva grandi aspirazioni politiche? Ascoltiamo, con la necessaria prudenza, tre testimoni che citano altre persone. Silvio Berlusconi e Franco Frattini citano Francesco Di Maggio, un magistrato oggi scomparso che certo non era amico del Polo ma lo era di Di Pietro, e che organizzò a Napoli la conferenza dell’Onu sulla criminalità. «Nel luglio 1994» mi raccontò Berlusconi «Di Maggio ci fece sapere che Di Pietro aveva pronta una nuova richiesta di arresto [che poi fu eseguita] per mio fratello Paolo, ma che era disposto a rinunciarvi se io avessi ammesso di conoscere le vicende per cui volevano incriminarlo. Io non ero al corrente di nulla e obiettai che, se il presidente del Consiglio avesse fatto un’ammissione del genere, avrebbe dovuto dimettersi. Risposta di Di Pietro, sempre attraverso Di Maggio: è vero, ma nascerebbe subito un secondo governo Berlusconi, perché non sarebbero possibili altre soluzioni. Ciò che in seguito emerse mi fece capire che Di Pietro mirava a farmi dimettere convinto com’era che avrebbe ricevuto lui l’incarico di formare il nuovo governo». Fantascienza? «Di Pietro non faceva mistero di queste ambizioni con i suoi amici di allora» aggiunse il Cavaliere. «Giancarlo Gorrini [altro benefattore di Di Pietro] gli chiese: “Non ti sarai montato la testa?”. E quando D’Adamo gli parlò della possibilità di fare il ministro, lui gli rispose: “Soltanto il ministro?”.»
Mi confermò Franco Frattini, oggi ministro degli Esteri e a suo tempo segretario generale di palazzo Chigi dov’era entrato con Ciampi: «Per almeno due volte, tra l’estate e l’autunno del 1994, Di Maggio mi confidò che Di Pietro puntava alla presidenza del Consiglio. Di Maggio prendeva queste affermazioni per battute. “Cose dell’altro mondo” esclamò un giorno. “Ma lo sai che cosa andava dicendo in giro Di Pietro? Che lui sarebbe diventato presidente del Consiglio.”».
Mi raccontò Gianni Pilo, allora deputato di Forza Italia: «Nel maggio 1995 il cognato di Di Pietro, Gabriele Cimadoro [deputato del Ccd, poi passato ai Democratici], mi chiese un appuntamento per dirmi: “Se Berlusconi si toglie di mezzo, Tonino è pronto a fare il capo del Polo. Fammi sapere”».
Non c’è dubbio che Di Pietro volesse colpire duro Berlusconi. La giornalista Rosanna Santoro riferì di aver raccolto questa frase di Di Pietro a Parigi la notte del 22 novembre 1994, all’indomani della consegna a Berlusconi dell’avviso a comparire: «Questa è una guerra. Solo uno ne uscirà vivo: o io o lui» («Panorama», 14 agosto 1997). «Il 25 novembre 1994» testimoniò Borrelli nel 1996 dinanzi ai magistrati di Brescia «Di Pietro mi disse: “Ci vado io al dibattimento. Io quello [cioè Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio in carica] lo sfascio”».
«Quella frase» mi dice oggi Di Pietro «proprio non me la posso rimproverare…»
Addirittura… «Era un modo per dire che disponevamo di un bagaglio probatorio nei confronti di quella persona.»
Un modo, come dire?, inelegante, vorrà riconoscere. «Ma non c’era nessun dolo in quella frase. Se io e lei vivessimo insieme per tre o quattro anni, dividessimo ogni momento della nostra giornata, dopo un po’ passeremmo dal lei al tu e, alla fine, anche a lei potrebbe capitare di dire: domani chi viene a “Porta a porta”? Di Pietro? Io quello lo sfascio…»
Borrelli ha ricordato quella battuta così forte perché era molto arrabbiato con lei, che si era rifiutato perfino di fermarsi ancora qualche giorno per interrogare Berlusconi. «La prima volta che Berlusconi doveva venire, io ero pronto e avevo preparato un fascicolo che poi consegnai ai colleghi. Quando venne, io mi ero dimesso perché, nel frattempo, mi era caduto addosso tutto quel po’ po’ di roba…»
Vedremo tra poco perché Di Pietro si dimise. Ma altre testimonianze documentano che il Pool di Mani pulite non era animato da sentimenti neutri nei confronti del Cavaliere.
Nel novembre 1996 Michelangelo Agrusti, già deputato democristiano, scrisse a Berlusconi una lettera attribuendo al magistrato Raffaele Tito, sostituto procuratore a Milano e suo conoscente, la seguente frase: «O arriviamo prima noi a colpire Berlusconi o arriverà prima lui a rafforzarsi e a normalizzare la situazione». Nell’aprile 1997 lo psichiatra Giorgio Fiorini, suocero di Tito, scrisse al procuratore della Repubblica di Brescia: «Nelle conversazioni avute con mio genero in quel periodo [tra il 1993 e il 1994] venni ad apprendere che il Pool si era totalmente concentrato … nella ricerca di notitiae criminis riguardanti direttamente o indirettamente la persona dell’onorevole Silvio Berlusconi. Quel gruppo di procuratori, a detta di mio genero, era animato non solo da una vera e propria volontà persecutoria, c’era in realtà dietro l’azione dei suddetti magistrati il disegno politico … di far cadere il governo, di favorire il cambiamento di maggioranze … Mio genero era animato da una sorta di odio ideologico nei confronti di Berlusconi e ripeteva a più riprese che loro, i magistrati del Pool, presto o tardi, in un modo o nell’altro, lo avrebbero allontanato da palazzo Chigi».
Di Pietro si tolse la toga. Perché?
Antonio Di Pietro annunciò il suo abbandono della magistratura martedì 6 dicembre 1994. Alla fine della requisitoria sul processo Enimont, «si libera della toga con un gesto ampio, da torero» scrisse Paolo Guzzanti sulla «Stampa». «E rapido, come se, una volta libero, ne temesse il contatto.» Erano le 16.43. Di Pietro aveva anticipato la sua decisione a Piercamillo Davigo domenica 27 novembre, due giorni dopo aver detto a Borrelli «Io quello lo sfascio». A Davigo giurò che non sarebbe entrato in politica: «Non posso più vivere tra fischi e applausi». Per cinque giorni Davigo tentò invano di convincerlo a restare o a mettersi in ferie (il pm avrebbe di fatto lasciato la magistratura soltanto nell’aprile 1995), poi il 2 dicembre entrambi avvertirono Borrelli, il quale si infuriò e cercò di convincere Di Pietro almeno a interrogare Berlusconi. Invano. Il 6 dicembre il magistrato fu raggiunto in udienza da una telefonata di Scalfaro, che tentò di fermarlo in extremis. Anche a lui Di Pietro disse di no. Ai giornalisti consegnò copia della lettera scritta al procuratore capo: «Mi sento usato, utilizzato, tirato per le maniche…».
A dieci anni da quel gesto clamoroso, le vere ragioni dell’abbandono di Di Pietro non sono ancora state realmente chiarite. Fin dall’aprile 1994, subito dopo la vittoria elettorale di Berlusconi, Di Pietro annunciò a Italo Ghitti che dopo la fine del processo Enimont sarebbe entrato in politica. Agli altri colleghi, più tardi, lo smentì risolutamente. «Quando entrò nella mia stanza per annunciare le dimissioni» mi disse Borrelli «era un uomo logoro e stanco.» Gli uomini del Pool accreditarono la tesi che Di Pietro fosse seccato per l’ispezione sull’attività della Procura di Milano ordinata dal Guardasigilli Biondi e finita in una bolla di sapone. L’aveva sollecitata per sei volte il procuratore generale Giulio Catelani, ma gli ispettori furono massacrati dai giornali, gli ispezionati rifiutarono di collaborare e Borrelli arrivò a chiedere al capo dello Stato, nella sua veste di presidente del Consiglio superiore della magistratura, se poteva denunciare il capo degli ispettori, Vincenzo Nardi. Per contro, Di Pietro fu gentile con loro e in una lettera al ministro chiarì che l’ispezione era estranea alla sua decisione di dimettersi. «Non ho doppi fini, né ambizioni politiche da coltivare» aggiunse.
In alcuni incontri privati, invece, accreditò la tesi di aver lasciato perché non condivideva l’atteggiamento del Pool contro Berlusconi. «Di Pietro venne a colazione a casa mia nei primi mesi del 1995» mi raccontò Pier Ferdinando Casini «e mi disse esattamente queste parole: “Berlusconi non è certo uno stinco di santo, come tutti gli industriali avrà fatto carne di porco, però l’accanimento di carattere politico del Pool non posso condividerlo”. Per questo, mi disse, si era dimesso.» Mi confidò Francesco Cossiga nell’estate del 1995: «Dai discorsi che Di Pietro mi ha fatto io ho sempre capito che lui ha lasciato il Pool perché non era d’accordo con le forme dell’inquisizione nei confronti del presidente del Consiglio dei ministri…».
Di Pietro andò anche a trovare Berlusconi ad Arcore. Gli ripeté le stesse cose che aveva detto a Casini e a Cossiga, affermò che il suo cuore «era vicino agli elettori di Forza Italia che avevano creduto, come me, nel rinnovamento», assicurò che non si sarebbe schierato con la sinistra, si disse disponibile in ogni caso – se il Polo avesse vinto di nuovo le elezioni – ad assumere la guida del ministero dell’Interno o dei servizi segreti. Il Cavaliere rivelò la visita di Di Pietro e il suo malumore nei confronti del Pool riguardo all’invio dell’avviso di garanzia al presidente del Consiglio intervenendo in diretta telefonica nella trasmissione Tempo reale di Michele Santoro il 13 aprile 1995. I colleghi del Pool, che sapevano com’erano andate le cose, s’infuriarono. Pochi giorni dopo, Colombo lo invitò a una cena di riconciliazione, che fu piuttosto fredda. «Antonio ci sembrò reticente» mi disse D’Ambrosio. «Perché? Non lo so. E un giorno mi piacerebbe sapere sul serio che cosa è successo.»
Negli stessi mesi vennero alla luce i rapporti patrimoniali di Di Pietro con D’Adamo e Gorrini. Gorrini dichiarò di aver fatto avere nel 1989 al magistrato 120 milioni: 100 per la ristrutturazione della casa di Curno, 20 per l’acquisto di una Mercedes usata. Questi soldi, che Gorrini considerava regalati, gli furono restituiti in tre rate cinque anni dopo, tra il giugno e l’ottobre 1994. D’Adamo aveva invece donato a Di Pietro una Lancia Dedra, gli aveva concesso l’uso permanente di un pied-à-terre con vista sul duomo di Milano, premurandosi di riempire sempre il frigorifero, gli aveva messo a disposizione per lunghi periodi una suite al residence Mayfair di Roma, vicino a via Veneto, e i biglietti Alitalia per raggiungerla. Il magistrato poteva inoltre vestirsi a spese dell’amico in uno dei negozi più eleganti di Milano, Tincati. E gli aveva prestato 100 milioni. Alla fine del 1994 Di Pietro si era ricordato del debito e aveva restituito la somma, in contanti, dentro una scatola da scarpe: D’Adamo la consegnò ai magistrati di Brescia che indagavano sul pm. Mi disse D’Ambrosio cinque anni dopo: «Mi sono sempre domandato perché Di Pietro non ha chiesto quei soldi a noi. I 100 milioni di D’Adamo glieli avrei trovati in cinque minuti, magari con una colletta». D’altra parte, quale banca avrebbe negato un mutuo a un magistrato della Procura sposato con un affermato avvocato consulente di D’Adamo e curatore delle cause assicurative di Gorrini?
«Quei due mi hanno sbancato…»
Lo scalpore suscitato dalla notizia dei soldi restituiti nella scatola da scarpe fu enorme. Sul «Corriere della Sera» Ernesto Galli della Loggia ricordò il tono sprezzante con il quale Di Pietro si rivolgeva ai percettori di tangenti: «Glieli davano avvolti nella carta i soldi? Erano cioccolatini?».
La generosità di Gorrini e D’Adamo non era disinteressata. Gorrini era entrato nella Tangentopoli milanese tra il 1992 e il 1993. Interrogato a Brescia nell’estate del 1997, D’Adamo ricordò i buoni rapporti di Di Pietro con Maurizio Prada e Sergio Radaelli, che furono identificati poi come i percettori delle tangenti milanesi per conto della Dc e del Psi. Disse di essere socio occulto di Radaelli, il «braccio armato di Craxi», che Di Pietro – sempre secondo D’Adamo – non avrebbe trattato male durante l’inchiesta sulle tangenti alla Metropolitana milanese. Radaelli e Prada furono poi arrestati all’inizio di Mani pulite, ma poche ore dopo ottennero gli arresti domiciliari. Entrambi furono difesi da Giuseppe Lucibello, un avvocato amicissimo di Di Pietro. Nel giugno 1995 Craxi diffuse dei tabulati telefonici che si era illecitamente procurato: nei giorni a cavallo dell’arresto si contano decine di telefonate tra Di Pietro, Lucibello e Radaelli.
A questo si aggiunga quel che disse Francesco Pacini Battaglia, un ricco e spregiudicato affarista che i magistrati del Pool di Milano collocarono «un gradino sotto Dio». Tra il 1987 e il 1992 la banca di Pacini, la Karfinco, ha distribuito ai partiti politici un centinaio di miliardi di tangenti per conto dell’Eni. Ma la Procura milanese evitò sempre di arrestare Pacini, ricevendone una proficua collaborazione. Quando, nel settembre 1996, il banchiere – difeso anche lui da Giuseppe Lucibello – fu arrestato su ordine della magistratura di La Spezia insieme con Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, uscirono alcune intercettazioni compromettenti. Disse Pacini Battaglia a proposito di Di Pietro e di Lucibello: «Se li arrestano, per me è solo un piacere … perché a me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato…». Di Pietro ovviamente si infuriò. Pacini Battaglia disse allora che lo «sbancato» era «sbiancato», «stangato», «stancato». Infine ammise di aver detto «sbancato», ma per riferirsi alla severità processuale di Di Pietro (e sostenne di aver pagato a Lucibello parcelle enormi).
Di Pietro subì molte indagini e ne uscì sempre con l’archiviazione. Se fosse rimasto in magistratura, tuttavia, gli sarebbero state inflitte verosimilmente pesanti sanzioni disciplinari, come riconobbe la stessa gip di Brescia Anna Di Martino, che pure fu attentissima alle ragioni del magistrato. Dunque, l’eroe di Mani pulite sarebbe stato umiliato. Una buona ragione, forse, per dimettersi.
«Mi sono dimesso» mi dice oggi Di Pietro «perché intorno a me stava chiudendosi il cerchio della delegittimazione. Dovevo essere libero di svolgere la più importante inchiesta della mia vita: quella per smontare tutte le accuse che mi venivano rivolte. Non potevo fare il pubblico ministero la mattina e difendermi il pomeriggio da accuse costruite in modo molto sofisticato. I dossier contro di me non partivano da un falso totale, ma venivano coloriti con elementi neutri. Dovevo, dunque, dimostrare di essere innocente.»
Capisco che le sia rimasta la mentalità del pubblico ministero, ma, anche nel suo caso, non doveva essere l’accusa a dimostrare la sua colpevolezza? «Venivo accusato di reati per i quali perseguivo altri. Sarebbe stato riduttivo rispondere: bene, dimostratemi che sono colpevole. Per questo, dopo l’accusa di Pacini Battaglia che grida ancora vendetta, dovetti difendere anche la mia immagine politica e dimettermi dal governo Prodi.»
In coscienza, non si rimprovera qualche amicizia un po’ disinvolta? «Sicuramente. Se tornassi indietro, la prima persona con cui me la prenderei sarei me stesso. Se non avessi avuto certe frequentazioni e certi rapporti, sarei stato più libero di continuare le mie inchieste. D’altra parte, sono orgoglioso di non aver guardato in faccia nemmeno gli amici.»
Lei sa che, quando fu arrestato Mario Chiesa, Paolo Pillitteri – cognato di Craxi e già sindaco di Milano – disse a Craxi: «Non preoccuparti, alla Procura abbiamo gli amici Borrelli e Di Pietro»? «Conoscevo Pillitteri, ma quando è stato necessario, l’ho incriminato. Sbagliò a pensare che la conoscenza di un magistrato avrebbe evitato che questi adottasse le misure necessarie.»
Se lei fosse rimasto in magistratura, le accuse a suo carico – pure considerate non rilevanti sotto il profilo penale dai giudici di Brescia – l’avrebbero portata dinanzi alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Non è così? «Avrebbero certamente aperto un procedimento disciplinare a mio carico e lo avrebbero sospeso in attesa dell’esito dell’azione penale. Posso tuttavia assicurarle che non mi sono dimesso per evitare il procedimento disciplinare, tanto è vero che mi sono difeso nel processo penale che è molto più importante. Sa qual è la verità? Quando mi sono dimesso, non pensavo che la mia situazione fosse così grave. Il mio problema era di non aver capito da che parte mi arrivassero tutte quelle accuse. Infatti, non venivano soltanto da una direzione. I fatti, poi, mi hanno dato ragione, ma se tanta gente che afferma di non aver operato perché io cadessi dal mio piedistallo mettesse la mano sul fuoco, sa quanti Muzio Scevola avremmo a destra e a sinistra?»
Il 17 novembre 1995 Romano Prodi accettò di presentare a Bologna il mio libro Il duello. Aveva pranzato in segreto con Di Pietro una settimana prima e, quando gli chiesi se dopo aver trattato con Berlusconi, Fini e Casini, Di Pietro era ormai un uomo del centrosinistra, il Professore rispose: «Tu l’hai detto … Il processo non è ancora concluso, ma è partito con lealtà». In effetti, fino all’ultimo istante prima delle elezioni l’ex magistrato giocò su due tavoli. Illuse Fini e soprattutto Mirko Tremaglia, che fu il tramite degli incontri con il leader di An, circa la propria neutralità. Quando Prodi vinse le elezioni, chiese la vicepresidenza del Consiglio o l’Interno. Gli offrirono i Lavori pubblici, e lui accettò. Si dimise sei mesi dopo, in novembre, quando uscì l’intercettazione di Pacini Battaglia («Quei due m’hanno sbancato»).
Pochi giorni dopo la Procura di Brescia ordinò contro di lui una spettacolare quanto inutile perquisizione, che vide impegnati 230 finanzieri. Quando, il 17 dicembre 1996, si presentò come parte lesa dinanzi al tribunale di Brescia, Di Pietro si avvalse della facoltà di non rispondere. I magistrati non gli consentirono di leggere una dichiarazione, e allorché il presidente gli chiese se voleva rispondere alle domande, lui balbettò: «Non… non… Mi perdoni… No, non… Sono una persona». Quando in un’aula di giustizia non si ha il coltello dalla parte del manico, tutti diventano persone. Anche Antonio Di Pietro.
L’accordo segreto D’Alema-Berlusconi
Il governo Dini si caratterizzò subito come il primo dei quattro gabinetti di centrosinistra che separarono la vittoria di Berlusconi del 1994 da quella del 2001. L’azionista di riferimento del presidente del Consiglio era Massimo D’Alema e se ne ebbe la conferma durante la vicenda Mancuso.
Filippo Mancuso, già inflessibile procuratore generale della Repubblica a Roma, era diventato ministro della Giustizia. Dotato di notevole coraggio, considerò «un enorme caso di abuso continuato della posizione d’ufficio» l’iniziativa del Pool di Milano di accogliere gli ispettori di Biondi con la minaccia di incriminarli. Mandò quindi una nuova ispezione, incaricata di accertare in particolare due anomalie. La prima: quando Italo Ghitti, primo gip di Mani pulite, era andato al Csm, il suo posto era stato preso da Andrea Padalino, un magistrato giovanissimo, con soli tre anni di vita giudiziaria alle spalle, catapultato dal tribunale del lavoro di Monza nella trincea più delicata d’Italia. Com’era fatale, non c’era iniziativa del Pool che non fosse considerata da lui con rispettosa condiscendenza. Era normale tutto questo? La seconda: gli ispettori avevano riferito a Mancuso la sensazione che i magistrati di Milano non usassero nei confronti del Pds la stessa inflessibile costanza investigativa mostrata nei confronti dei partiti di governo, e citarono il caso di Primo Greganti.
In Consiglio dei ministri, inoltre, Mancuso aveva severamente censurato, anche sotto il profilo della responsabilità penale, alcune iniziative secessionistiche di Bossi. Dini era corso ai ripari ponendo il segreto su quanto aveva detto il Guardasigilli: se gli fosse mancata la stampella leghista, il suo governo sarebbe caduto.
La sinistra, com’era ovvio, non apprezzò affatto l’operato di Mancuso, gli tolse la fiducia in Parlamento e lo costrinse alle dimissioni. Il Polo lo sostenne e chiese di votare la fiducia al governo, contando sul fatto che Bertinotti avrebbe votato con il centrodestra. Ma, la notte precedente il voto, il leader di Rifondazione ricevette la visita di D’Alema e di Veltroni, e si trovò suo malgrado nelle condizioni di don Abbondio quando ricevette gli emissari di don Rodrigo.
Tra il novembre 1995 e il gennaio 1996, grazie alla mediazione di Gianni Letta, D’Alema e Berlusconi lavorarono inopinatamente (e in assoluta riservatezza) a una bozza di accordo costituzionale che implicava l’esistenza di un governo bipartisan che ne garantisse l’attuazione. Un gruppo di lavoro composto da quattro professori (Urbani, Forza Italia; Fisichella, An; Bassanini e Salvi, Pds) varò il seguente progetto: il 90 per cento dei deputati sarebbe stato eletto con il sistema in vigore al Senato, mentre il restante 10 per cento sarebbe stato attribuito alla maggioranza per assicurarle la necessaria stabilità di governo; il capo dello Stato avrebbe limitato le proprie funzioni alla pura garanzia costituzionale; primo ministro sarebbe diventato il capolista della coalizione vincente; la sfiducia al presidente del Consiglio avrebbe comportato la caduta del governo e il presidente sfiduciato non avrebbe potuto ricandidarsi alle elezioni; i partiti avrebbero potuto sostituire, senza andare alle urne, il premier che si fosse dimesso spontaneamente; le elezioni sarebbero avvenute con il doppio turno (una vecchia idea di D’Alema sulla quale il Polo era un po’ freddo perché, al secondo turno, gli elettori di Rifondazione avrebbero certamente votato compatti a sinistra, mentre la stessa cosa non sarebbe avvenuta con la Lega a destra).
Tra il 22 e il 23 gennaio 1996 il documento fu approvato da Casini e ricevette invece molte obiezioni da Fini, che ne diede copia a quattro persone di sua fiducia. Una copia finì alla redazione del «Giornale» diretto da Vittorio Feltri, che la pubblicò il 24 gennaio facendo così saltare il progetto. Il Cavaliere era stato infilzato dal quotidiano controllato dalla sua famiglia… Fisichella, messo sotto accusa dai suoi per le eccessive concessioni, voleva dimettersi dal partito. Fini riuscì a rabbonirlo, ma lo sostituì con Nania in un nuovo gruppo di lavoro che raggiunse un accordo su altre basi, riassunte sotto questo titolo: Per una riforma della Costituzione repubblicana (parte II) secondo lo schema della Quinta Repubblica francese, cioè della repubblica semipresidenziale di De Gaulle e Chirac.
Il capo dello Stato sarebbe stato eletto anche in Italia a suffragio universale diretto, avrebbe avuto i poteri previsti dalla Costituzione francese, ma non avrebbe potuto indire i referendum. Ci sarebbe stata, inoltre, «un’equilibrata divisione di posizioni costituzionali tra governo e Parlamento». Così, la destra otteneva l’agognato presidenzialismo, la sinistra il mantenimento delle garanzie parlamentari, che sono il nerbo della Costituzione del 1948, e l’elezione dei deputati in collegi uninominali maggioritari a doppio turno.
La notte del 30 gennaio, quando tutte le consultazioni incrociate ebbero esito positivo, Giuliano Urbani scrisse sul suo diario: «Il dado è tratto». Chi sarebbe stato il presidente del Consiglio del governo istituzionale di transizione? Il Polo bocciò Dini («È l’uomo di Scalfaro»), D’Alema bocciò Ciampi (per un riguardo a Dini, di cui era il nemico storico) e Amato (per i suoi vecchi rapporti con Craxi). Alla fine la spuntò Antonio Maccanico, già segretario generale del Quirinale con Pertini e presidente di Mediobanca, le cui doti di mediatore erano famose. «È capace di mettere d’accordo due sedie vuote» dicevano di lui. («Purtroppo le trovai piene» mi confessò dopo il fallimento del suo tentativo.)
Caduto Maccanico, Prodi a palazzo Chigi
Il primo a lanciare la sedia contro Maccanico fu Romano Prodi, il secondo Gianfranco Fini. Nella sua trattativa con il Polo, D’Alema aveva ignorato sia il Professore sia i popolari. Prodi temeva (a ragione) che il patto costituzionale tra D’Alema e Berlusconi ne avrebbe fatto i candidati naturali dei due opposti schieramenti alle successive elezioni politiche. Prese così carta e penna, e il 1° febbraio 1996, mentre Maccanico saliva al Quirinale per ricevere l’incarico di formare il nuovo governo, scrisse un comunicato che cominciava con un bel «no» e proseguiva affondando l’accordo. «Le reciproche paure e le comuni convenienze di D’Alema e Berlusconi hanno fermato la grande e necessaria evoluzione» dettò alle agenzie di stampa. Il segretario del Pds fu informato mentre era dal barbiere. La sera prima, a cena in casa di Veltroni, D’Alema aveva informato Dini, Gerardo Bianco e lo stesso Prodi dell’accordo su Maccanico. Il Professore l’aveva presa male, ma D’Alema credeva di averlo rassicurato. (In realtà, la vera carta di riserva del leader del Pds era Dini, che ormai lo venerava come il suo personale padre Pio.) Così, quando seppe del comunicato, D’Alema si alzò dalla poltrona con i baffi curati a metà, andò nell’ufficio di Prodi (assente) e ne impose il ritorno in sede. Tra i due volarono parole pronunciate a un tale volume che le vetuste mura del palazzo gentilizio di largo Brazzà sembrarono di carta velina.
D’Alema tirò diritto e nacque un’ipotesi di governo «blindato», con Gianni Letta e Luigi Berlinguer vicepresidenti del Consiglio, Dini agli Esteri, Ciampi all’Economia, Letizia Moratti o Gaetano Rebecchini di An agli Affari sociali, Lorenzo Necci superministro di Trasporti e Lavori pubblici. Casini e, soprattutto, Fini dissero che non si sentivano rappresentati e comunque avvertirono che non avrebbero accettato una maggioranza di governo diversa da quella che avrebbe votato le riforme costituzionali. Entrambi facevano questo ragionamento: se alle elezioni anticipate il Polo vince, bene; se perde, sarà l’occasione buona per togliersi di torno Berlusconi. Prodi e Veltroni, d’altra parte, vedevano l’Ulivo appassire di botto. Il colpo decisivo a far cadere Maccanico lo diede Scalfaro, che cancellò dalle dichiarazioni del presidente incaricato la parola «semipresidenzialismo». Se Maccanico, invece di consigliarsi con il diabolico presidente della Repubblica, gli avesse portato la lista dei ministri, il suo governo avrebbe avuto la fiducia del Parlamento. Non lo fece, rinunciò, Scalfaro sciolse le Camere e fissò le elezioni per il 21 aprile.
Vinse l’Ulivo di Romano Prodi e di Walter Veltroni, che salì a palazzo Chigi come vicepresidente del Consiglio. L’Ulivo rappresentò la grande novità politica del tempo. Prodi aveva girato per un anno l’Italia a bordo di un pullman facendo pazientemente il piazzista di un’idea riformista moderata che univa gli ex democristiani di sinistra e gli ex comunisti su basi non massimaliste per combattere il liberismo di Berlusconi, che aveva divelto tumultuosamente le quiete radici della Prima Repubblica.
Fino all’immediata vigilia elettorale, il Professore e soprattutto il segretario dei popolari, Gerardo Bianco, avevano smentito recisamente qualunque ruolo di Fausto Bertinotti nella nuova maggioranza. L’aveva smentito anche Dini, il quale si era presentato con un partito tutto suo, Rinnovamento italiano, cedendo alla fatale lusinga di un sondaggio che gli aveva pronosticato un 10 per cento. Fino all’ultimo, Dini aveva rassicurato Letta e Fini che avrebbe mantenuto la sua neutralità, ma le blandizie di D’Alema e la prospettiva (non del tutto campata in aria) di tornare con un colpo di scena a palazzo Chigi, se Rinnovamento avesse avuto più voti dei Popolari per Prodi, lo indussero a lasciar cadere l’offerta di Berlusconi di schierarsi con il centrodestra in cambio della promessa di farlo restare alla presidenza del Consiglio sotto le insegne del Polo vittorioso. La «desistenza» di Bertinotti – cioè la rinuncia a correre nei collegi a rischio – fu invece determinante per la vittoria dell’Ulivo e per la sorte del governo Prodi.
I Popolari conquistarono il 6,8 per cento e un gran numero di seggi alla Camera (67) per l’abilità negoziale di Marini. Dini dovette fermarsi al 4,3 e superò la soglia di sbarramento nella quota proporzionale soltanto grazie alla robusta iniezione di voti «rossi» assicuratagli da D’Alema nelle regioni controllate dal Pds. Quest’ultimo batté d’un soffio Forza Italia: 21,1 per cento contro 20,6. Fini ottenne il 15,7: si aspettava molto di più e dovette rassegnarsi all’idea che Berlusconi restava indiscutibilmente il leader del Polo. Casini, Mastella e Buttiglione – presentatisi insieme come Ccd e Cdu – ebbero il 5,8. Eccezionali i risultati di Bertinotti e di Bossi: il primo ottenne l’8,6 per cento, il secondo passò addirittura il 10. Bossi, che si era presentato da solo, sfruttò una notevole rendita di posizione tuonando contro «Roma-Polo, Roma-Ulivo» e raccogliendo nel Nord il voto degli imprenditori – grandi e piccoli – delusi dal Cavaliere e risolutamente contrari a un governo di centrosinistra. Poiché nella quota proporzionale, dove si votano i simboli di partito, il Polo ebbe più consensi dell’Ulivo (16.478.000 contro 16.228.000), nelle riunioni con gli alleati D’Alema disse che l’Ulivo aveva perso le elezioni («Siamo maggioranza in Parlamento, siamo minoranza nel paese»). Tecnicamente, invece, l’Ulivo le aveva vinte, grazie alla capacità di aggregazione del segretario del Pds, il quale riuscì a far convivere Dini e Bertinotti, che quasi nemmeno si salutavano. Un milione 400.000 persone che nel proporzionale avevano votato Polo, nel maggioritario votarono i candidati dell’Ulivo, evidentemente più convincenti (270.000 votarono Lega, 300.000 Rauti, 570.000 Ulivo).
Il Polo perse per tre ragioni. Non riuscì a rassicurare il ceto medio a reddito fisso che le riforme (a cominciare da quella sanitaria) non gli avrebbero tolto la certezza di un pur mediocre servizio; perse l’appoggio decisivo della Lega e, infine, non poté – per la ferma opposizione di Fini – fare un accordo mascherato con la Fiamma di Pino Rauti, il che fece perdere al Polo per pochi voti una trentina di seggi (seggi decisivi, visto che subito dopo le elezioni Prodi ebbe alla Camera una maggioranza di soli sette voti).
Il centrosinistra offrì al Polo la presidenza del Senato, ma Fini mandò all’aria la trattativa rifiutandosi di votare Luciano Violante come presidente della Camera. Al Senato andò così Nicola Mancino. Per ironia della sorte, appena eletto, Violante fece un discorso di riconciliazione nazionale verso la destra che strappò le lacrime al «ragazzo di Salò» Mirko Tremaglia.
Stefania Ariosto, un teste straordinario
Il risultato ottenuto da Berlusconi era tanto più sorprendente perché la campagna elettorale fu fortemente inquinata dalle vicende giudiziarie. Il 12 marzo, a un mese e mezzo dal voto, per ordine della Procura di Milano furono arrestati a Roma il presidente della sezione dei giudici per le indagini preliminari, Renato Squillante, e l’avvocato Attilio Pacifico, che amministrava in Svizzera, fra tanti altri, anche i conti dell’alto magistrato che era stato commissario della Consob.
Secondo l’accusa, Berlusconi avrebbe messo a disposizione di Cesare Previti molti soldi per corrompere magistrati romani che «aggiustassero» processi. La fonte «privilegiata» del Pool di Mani pulite era una bella signora milanese, Stefania Ariosto, sposata due volte e due volte separata, ora legata all’avvocato Vittorio Dotti, presidente dei deputati di Forza Italia. Dotti, affermato civilista, aveva assistito per vent’anni il Cavaliere fino a diventare consigliere delegato della Fininvest e procuratore alle liti. Dotti e Previti si detestavano, anzitutto per ragioni professionali (anche l’avvocato romano assisteva Berlusconi), poi per ragioni politiche (entrambi deputati di Forza Italia, il primo non aveva digerito la promozione ministeriale del secondo). Attraverso Dotti, l’Ariosto aveva conosciuto Previti e Berlusconi.
L’Ariosto era da tempo sotto controllo della guardia di finanza: appassionata frequentatrice del casinò di Campione, vi aveva perso cifre colossali. La sua «presentazione spontanea» dinanzi al sostituto procuratore milanese Francesco Greco del 21 e del 25 luglio 1996 era in qualche modo attesa e foriera di interesse, visto che il magistrato rientrò precipitosamente dalle sue vacanze in Sardegna. L’Ariosto disse che Previti le aveva confidato di aver ricevuto da Berlusconi «fondi illimitati» per corrompere i magistrati. Quali magistrati? L’Ariosto non andò oltre il nome di Renato Squillante. Disse a questo proposito di essere stata testimone di due episodi. Al termine di una partita di calcetto al circolo Canottieri Lazio avrebbe visto Previti consegnare a Squillante una busta piena di denaro («A Renà, te stai a scordà ’a busta…»). Successivamente, a cena in casa Previti in via Cicerone, avrebbe visto l’avvocato distribuire mazzette di denaro a Squillante e a Pacifico.
Quando l’Ariosto rese la sua deposizione, nella caserma della guardia di finanza dove avvenne l’incontro con Greco c’erano anche Vittorio Dotti e il sostituto Piercamillo Davigo. I verbali non dettero atto di queste presenze, che furono tuttavia determinanti. Dotti fu chiamato dall’Ariosto o per rassicurarla sull’opportunità di deporre o per convincerla a sottoscrivere una deposizione già rilasciata. Nel suo libro La gazzella e il leone l’Ariosto scrive che, quando chiamò Dotti, questi fu informato dai magistrati del «fatto» (cioè della chiamata in causa di Berlusconi) e che Davigo avrebbe promesso «nei limiti delle sue possibilità istituzionali, un’operazione di ingegneria giuridica» per assicurare la massima copertura all’operazione. E ci riuscì, visto che della cosa non si seppe nulla per otto mesi, fino all’arresto di Squillante e di Pacifico. (Nell’autunno del 1997 la Camera bocciò a scrutinio segreto la richiesta di arrestare Previti.)
Previti smentì l’Ariosto su tutta la linea. La busta ai Canottieri Lazio? «Nessuno ha mai visto l’Ariosto in quel Circolo e lei non sa descriverne la sede.» La cena del 1988 in via Cicerone? «Dal 1987 abitavo in piazza Farnese e l’appartamento di via Cicerone era impraticabile per lavori di ristrutturazione.» In effetti, nell’incidente probatorio avvenuto nel maggio 1996, l’Ariosto cadde in molte contraddizioni e manifestò molte incertezze. Due furono i momenti più critici. Il primo, quando per venti minuti sfogliò le sue celebri agende del 1987 e del 1988 senza trovare la data della cena in via Cicerone. Non ricordava se fosse estate o inverno, né chi le sedeva accanto. («Che sia stato il 1987, il 1988 o il 1989 non importa» mi disse quando l’incontrai nell’estate del 1996. «Il fatto oggettivo non cambia.») Il secondo momento critico si ebbe quando si parlò dei debiti dell’Ariosto. La signora disse che nel luglio 1994 ammontavano a 2 miliardi e 900 milioni e che ne aveva estinto una parte vendendo gioielli di famiglia. Ma quando il professor Gaetano Pecorella, difensore di Berlusconi, le chiese a chi li avesse venduti, in aula scoppiò il pandemonio: l’Ariosto disse di sentirsi violentata nel suo privato, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini le corsero in aiuto e, alla fine, la domanda fu ritirata. La difesa degli imputati e alcune persone ingiustamente chiamate in causa dall’Ariosto ritengono – senza peraltro averlo mai potuto dimostrare – che la signora sia stata «aiutata» nella sistemazione delle sue pendenze finanziarie. Rosario Priore, il magistrato che si è occupato del caso Ustica, fu accusato dall’Ariosto di essere andato a spese di Cesare Previti negli Stati Uniti quando la Niaf, la potente associazione degli italoamericani, premiò Craxi. L’avvocato smentì, Priore denunciò la signora per calunnia e le fece recapitare gli atti al servizio centrale dei collaboratori di giustizia, presso la direzione centrale della Criminalpol, dopo che l’ufficio anagrafe del comune di Milano si era rifiutato di comunicargli l’indirizzo dell’Ariosto, coperto da segreto per ordine della magistratura. L’«ufficio pentiti» prima accolse, poi respinse l’atto. Ma subito dopo l’anagrafe comunicò l’indirizzo…
All’immediata vigilia delle elezioni del 1996, dunque, la grancassa sulla vicenda Ariosto non giovò certo a Berlusconi, che si trovò costretto a non ricandidare Dotti, già capogruppo di Forza Italia alla Camera. L’avvocato si rifiutò di smentire quel che aveva detto l’Ariosto, sostenendo di non saperne niente. Si accertò, al contrario, che era informato della chiamata in causa di Berlusconi fin dal luglio 1995. Rimasto senza seggio, Dotti provò ad avvicinarsi a Dini, che l’avrebbe messo in lista se non glielo avessero impedito all’ultimo momento Prodi e D’Alema.
E Bossi gridò: «Secessione!»
Incassato nel 1996 il risultato più brillante della storia della Lega, Bossi commise l’unico gravissimo errore della sua carriera politica, che avrebbe pesantemente pagato tre anni dopo: la secessione. «Il Po è la spina dorsale della Padania» mi spiegò nell’autunno del 1996. «Siamo andati a festeggiare una bambina che si chiama Padania ed è ancora nel pancione della Storia. Ha il cuore a Mantova, la testa a Venezia, i nervi disseminati nelle tredici città in cui sorgono i ministeri più importanti.» Quando gli rovesciai sul tavolo il legno di una trincea della prima guerra mondiale ancora intrisa del sangue di chi si batté per la definitiva unità nazionale, Bossi mi attaccò un interminabile bottone sulla storia di Oreste e di Clitennestra, sulle ragioni del cuore e quelle della ragione, per concludere secco: «Non soffro la perdita dell’Italia, se è quello che voleva sapere». Da dove pensate di cominciare?, chiesi. «Dalla moneta. Si chiamerà Lega e il suo valore sarà dieci volte quello della lira meridionale. Nella classifica mondiale della competitività, il Nord è tra il decimo e il quindicesimo posto, il Sud sta intorno al centocinquantesimo. Dunque…» E come maturerebbe la secessione? «Con un referendum.»
Il 13 settembre 1996, alle cinque del pomeriggio, Bossi andò alle sorgenti del Po per riempire un’ampolla di «acqua sacra». Partì una staffetta e due giorni dopo, a Venezia, il capo della Lega poteva annunciare: «Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo la Padania repubblica federale indipendente e sovrana». (Bossi è tuttora il segretario federale della Lega, mentre i segretari di Piemonte, Lombardia, Veneto e così via sono segretari nazionali.) Il Senatùr era convinto che l’Italia non sarebbe riuscita a entrare nell’euro e, a suo giudizio, la situazione che ne sarebbe derivata avrebbe favorito lo strappo dell’area del Nord. Fortunatamente per il nostro paese, la sua previsione si rivelò sbagliata e così Bossi si trovò a dover gestire un’automobile senza motore. Fino a quando fu costretto a rottamarla. Tuttavia, l’illusione secessionista fece delle vittime.
Venerdì 9 maggio 1997, venti minuti dopo la mezzanotte, otto uomini si presentarono all’isola del Tronchetto, a Venezia, dove stava partendo l’ultimo traghetto per il Lido. Fecero salire il «tanko», un mezzo blindato da operetta che il comandante del traghetto accettò senza battere ciglio pensando che gli otto uomini in assetto operativo fossero del reggimento Lagunari. Appena mollati gli ormeggi, Fausto Faccia, il capo del commando, gli ordinò di puntare su San Marco, dove erano in attesa polizia e carabinieri, già avvertiti da un paio di telefonate. Alla vista degli agenti, Faccia – l’unico armato con un vecchio mitra – gridò: «Ve tiro zò tuti, ve copo!». Quelli non si mossero e gli otto salirono sul campanile di San Marco, con il proposito di restarci tre giorni, fino al 12 maggio, 200° anniversario della caduta della Veneta Serenissima Repubblica. Nel frattempo, lo Stato italiano avrebbe dovuto trattare con un misterioso ambasciatore della Serenissima, Umberto Segato, che fu arrestato più tardi. Alle otto del mattino l’avventura dei «serenissimi» era già finita: mentre dal campanile parlamentava con Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, Faccia si trovò puntate addosso le armi dei Gis, i gruppi speciali dei carabinieri: «Non fare scherzi, altrimenti ti spariamo in testa». E lui non ne fece.
Gli otto avevano accumulato in poche ore una serie spaventosa di reati, ma i giudici furono clementi: le pene variarono dai sei anni per i più anziani ai quattro anni e nove mesi per i più giovani, che furono messi agli arresti domiciliari. Meno comprensivi furono i giudici dell’esecuzione, che negarono l’affidamento ai servizi sociali a Fausto Faccia, Andrea Viviani e Luca Peroni: erano «socialmente pericolosi» perché non sconfessarono le loro idee. Quali fossero queste idee, andai a farmelo spiegare in carcere e in casa dagli interessati.
Era anzitutto gente che non amava Bossi. Faccia aveva un linguaggio più moderato, non voleva la secessione, ma semplicemente una maggiore autonomia per Veneto, Trentino e Friuli, le tre Venezie della Repubblica Serenissima. «Ma è una delle macroregioni disegnate dalla Fondazione Agnelli» esclamai. Faccia annuì. E quando gli chiesi se si fosse reso conto di quel che aveva combinato, mi disarmò: «Un rapinatore fa i conti. Un idealista no». Nelle modeste abitazioni degli altri trovai bellissimi volumi sulla storia della Serenissima. «Mi dispiace che a scuola non ce l’abbiano insegnata» mi disse uno. L’autonomia scolastica prevista nella riforma costituzionale approvata alla fine del 2004 dovrebbe rimediare: prevede insegnamenti integrativi locali, all’interno di un unico indirizzo scolastico nazionale.
Prodi e D’Alema, fratelli coltelli
Prodi entrò a palazzo Chigi nel maggio 1996, ma a dicembre i suoi rapporti con D’Alema si erano già guastati. D’Alema è un serio professionista della politica. Ha creduto profondamente nel comunismo, e non risulta che l’abbia mai rinnegato, ma ha capito prima di altri che la Storia andava da un’altra parte e lui l’ha cavalcata nella giusta direzione. Quando, da presidente del Consiglio, parlava con Bill Clinton e con Tony Blair, li considerava colleghi riformisti. E tale da loro era considerato, nessuno ormai ricordando che, meno di un decennio prima, tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti anche D’Alema avrebbe dovuto scegliere la prima. Da riformista scrupoloso, D’Alema aveva capito che il centrosinistra al governo doveva fare le riforme, persino quelle dolorose per la propria base.
Così, nel settembre 1996, alla Festa dell’Unità pronunciò un coraggioso discorso sullo Stato sociale, immaginando di dover arrivare a una riforma pensionistica più avanzata di quella varata da Dini. Si aspettava che Prodi lo seguisse su quella strada, ma il Professore non lo fece. E non perché non ne fosse convinto, ma perché Bertinotti – perno della sua maggioranza – da quell’orecchio non voleva sentirci. Chiamato nel 1994 da Cossutta a sostituire Garavini come segretario di Rifondazione comunista, Bertinotti aveva assunto lestamente la leadership del partito soffiandola a quel Guido Cappelloni che era stato l’uomo chiave dei finanziamenti sovietici al Pci e, poi, alla corrente cossuttiana. Il suo fascino intellettuale e la sua abilità dialettica avevano fatto di Bertinotti uno scomodo compagno di strada per il centrosinistra.
Il segretario del Pds era piuttosto infastidito dall’asse privilegiato che si era andato stabilendo tra il leader di Rc e il Professore, come otto anni dopo – nell’autunno del 2004 – avrebbe guardato con uguale sospetto le prime avvisaglie del ripristinarsi di un simile clima. Così il 14 dicembre 1996 D’Alema avvertì Prodi sulla «Repubblica»: «L’Ulivo non può ridursi a una forza di gestione e resistenza contro un “paese cattivo” che non capisce». Aveva sott’occhio un inquietante sondaggio appena commissionato all’istituto Swg di Trieste: due terzi degli italiani erano scontenti del governo. L’annunciata manovra di 32.000 miliardi per il 1997 (con un terzo di nuove tasse) era salita a 62.000 grazie alla «tassa per l’Europa» fortemente progressiva («Un’imposta bulgara, un esproprio» mugugnò Dini), che negli anni successivi sarebbe stata in parte restituita. Prodi aveva scoperto che, a differenza della Spagna, l’Italia rischiava di rimanere fuori dall’euro nascente ed era corso ai ripari, ma il paese ribolliva. I sondaggi dicevano a D’Alema che, se si fosse votato di nuovo, il Polo avrebbe vinto: nell’autunno del 1996 Berlusconi, Fini e Casini avevano occupato con un milione di persone piazza San Giovanni, il luogo sacro del Pci che aveva visto i trionfi di Togliatti e di Berlinguer.
A sinistra, il clima politico era inquieto. «Il governo» mi spiegò D’Alema «si poneva come mediatore dei rapporti tra Pds e Rifondazione, quasi che Bertinotti fosse stato un problema nostro. Come se Prodi avesse detto: uffa, adesso ho questo Bertinotti che litiga con D’Alema e mi tocca mediare un po’ con l’uno, un po’ con l’altro.» «Nego di aver seguito Bertinotti» mi disse Prodi. «Ho seguito semplicemente una linea di politica economica coerente.»
Non era soltanto la politica economica a creare problemi al governo. Nell’aprile 1997, quando scoppiò la crisi albanese, l’Italia fu chiamata a inviare soldati per una missione umanitaria e per garantire libere elezioni. Rifondazione votò contro e il governo si salvò grazie ai voti del Polo. Prodi non censurò Bertinotti, continuò a ringhiare contro Berlusconi, e D’Alema se la legò al dito. Al punto di pensare allo scioglimento anticipato delle Camere e a un voto il 15 giugno 1997 per regolare una volta per tutte i conti non tanto con Berlusconi, quanto con Prodi e con Bertinotti.
Il «patto della crostata» e i suoi segreti
Dal 22 gennaio 1997 D’Alema era presidente della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Il Polo avrebbe preferito un’assemblea costituente, ma poiché questa sarebbe stata eletta con il sistema proporzionale, il centrodestra ne avrebbe conquistato la maggioranza: cosa impensabile a pochi mesi dalle elezioni vinte dall’Ulivo. D’Alema dette al Cavaliere ampie garanzie. Nell’autunno del 1996, presentando con Berlusconi il mio libro La svolta, gli disse: «Non c’è dubbio che il disegno costituzionale abbia prevalenza su quello di governo». Il Cavaliere cominciò a sognare un governo di «larghe intese» e, ovviamente, Prodi non la prese bene. Fini, contrario alla presidenza D’Alema, difese a spada tratta il semipresidenzialismo alla francese, che il segretario del Pds avrebbe accettato se non gli fosse scoppiata la rivolta in casa. Dovette allora ripiegare sul «premierato», cioè sull’elezione diretta del primo ministro. Berlusconi alla fine era d’accordo, mentre Fini fece il diavolo a quattro. Il premierato sarebbe tuttavia passato se la Lega non ci avesse messo lo zampino, votando per il semipresidenzialismo. Bossi, in realtà, guardava con sovrano disprezzo tutte le alchimie costituzionali, ma voleva evitare che la Commissione raggiungesse due risultati: se fosse andato avanti il progetto federalista del senatore Ccd Francesco D’Onofrio di ampliare le competenze delle regioni, la Lega sarebbe stata battuta in casa propria; e se D’Alema e Berlusconi si fossero messi d’accordo per un governo di larghe intese, il potere d’interdizione di Bossi sarebbe finito. Dunque, occorreva far saltare il tavolo.
E il tavolo saltò il 4 giugno 1997: il premierato stava vincendo per 31 voti contro 30, quando i sei commissari della Lega – fino a quel momento assenti dai lavori – alzarono il braccio e il semipresidenzialismo vinse per 36 a 31. Da quel momento Fini sposò la Commissione che aveva sempre rifiutato e cominciò un sottile lavoro di ricucitura con Franco Marini, nuovo segretario dei popolari al posto di Gerardo Bianco. Marini e Fini (accompagnato dall’inseparabile Pinuccio Tatarella, la sua coperta di Linus), si trovarono con Berlusconi e D’Alema in una cena segreta in casa di Gianni Letta e decisero di affidare a quattro esperti (Mattarella del Ppi, Nania di An, Urbani di Forza Italia e Salvi del Pds) lo studio di un sistema elettorale che coniugasse l’impossibile: l’elezione diretta del presidente della Repubblica con l’elezione diretta del primo ministro e della maggioranza di governo. Fu messo in piedi un sistema complicatissimo il cui succo era questo: se una coalizione avesse raggiunto il 51 per cento dei voti al primo turno, le sarebbe stato assegnato a tavolino un altro 20. Se non l’avesse raggiunto, al secondo turno gli elettori avrebbero dovuto scegliere l’una o l’altra coalizione.
La sera di mercoledì 18 giugno 1997 Maddalena Letta aveva preparato una delle sue memorabili crostate in onore degli ospiti che erano diventati nove: i quattro esperti si erano aggiunti a Berlusconi, Fini, Tatarella, Marini e D’Alema. Troppa gente per poter mantenere il segreto, soprattutto quando qualcuno degli invitati non resisteva alla tentazione di far sapere che «io c’ero». Così la cena fu assediata dai cronisti. Tra fusilli ai funghi e vitello tonnato, Berlusconi e Fini ottennero che il capo dello Stato, pur non potendo presiedere il Consiglio dei ministri, avesse una certa leadership sulla politica estera e della difesa. D’Alema chiarì che il presidente della Repubblica si sarebbe limitato a un ruolo di garante con una maggioranza parlamentare di segno opposto, ma sarebbe stato un leader effettivo con la maggioranza del proprio colore. Fini accettò e ottenne che il capo dello Stato eletto dopo consultazioni politiche vinte da una coalizione di colore diverso potesse sciogliere il Parlamento e chiedere nuove elezioni. Era nato il «patto della crostata».
Quando ne furono svelati i termini, D’Alema si trovò isolato all’interno del suo partito. Aveva fatto cadere Berlusconi dopo sette mesi e portato dalla sua parte Dini. Aveva vinto elezioni non volute e tenuto in piedi la Bicamerale senza indebolire il governo. Eppure, i suoi lo accusarono di verticismo. Veltroni propose di azzerare tutto e, intorno al 10 luglio, D’Alema pensò di dimettersi da segretario del partito, mantenendo la presidenza della Bicamerale. Soltanto l’insistenza di Marco Minniti riuscì a frenarlo, ma Massimo «Spezzaferro» continuò a scaricare il proprio malumore seviziando i tappi a corona delle bottiglie d’acqua minerale.
Si consolò (si fa per dire) portando dalla sua parte Antonio Di Pietro. Riavutosi dalla fregatura di averlo visto entrare nel governo Prodi, Mirko Tremaglia aveva continuato a corteggiare il simbolo di Mani pulite con apparente successo. Il 15 luglio 1997 Di Pietro aveva detto al «ragazzo di Salò», incontrato a Curno, il paese in provincia di Bergamo dove abita, che la soluzione migliore per il suo definitivo ingresso in politica sarebbe stato un movimento trasversale. In realtà, aveva già preso appuntamento per l’indomani con D’Alema a Roma. Un incontro segreto in cui il segretario del Pds offrì a Di Pietro un collegio senatoriale che più blindato non si potrebbe: il glorioso Mugello, più rosso del sangue.
Il popolo di sinistra fu preso in contropiede. Proprio in quei giorni il suo giornale di riferimento, «la Repubblica», non risparmiava titoli contro l’ex magistrato riportando le pesanti testimonianze degli amici benefattori. D’Adamo: «Gli regalai auto, telefonino, garçonnière e più di cento milioni per favorire gli amici indagati». E ancora: «Chiesi aiuto a Di Pietro e lui disse: vai da Pacini…». Il gip di Brescia avrebbe archiviato ogni accusa, ma il clima per Di Pietro s’era fatto pesante. D’Alema gli venne incontro con una polizza d’assicurazione strepitosa. E, nell’autunno successivo, Di Pietro fu eletto con un plebiscito, rifiutando sempre di incontrare Giuliano Ferrara e Sandro Curzi, gli eroici kamikaze oppostigli dal Polo e da Rifondazione. «Ho trasformato un pericolo in una risorsa» mi disse D’Alema, al quale il senatore non avrebbe risparmiato qualche amarezza.
D’Alema salva Prodi e il Pds diventa Ds
D’Alema salvò ancora una volta il governo Prodi nell’autunno del 1997. Il 6 ottobre il Professore si sfogò: «Ho investito molto nel rapporto personale con Bertinotti. Ho pagato pesantemente l’esposizione del governo verso Rifondazione. E vengo ricambiato così?». Non aveva torto, ma il suo partner più irrequieto era irremovibile: il suo partito non avrebbe più appoggiato un governo autore di una legge finanziaria «inemendabile». Era in ballo la legge sulle pensioni di anzianità e il segretario della Cgil, Sergio Cofferati, aveva detto a D’Alema di essere pronto a fare un passo in avanti se Prodi non lo avesse scavalcato mettendosi d’accordo con Bertinotti. Il segretario del Pds incontrò a quattr’occhi il suo collega di Rifondazione e gli prospettò ancora una volta la guerra nucleare a sinistra se avesse fatto cadere il governo. Ma Bertinotti resistette e il 9 ottobre Prodi lesse in trentacinque minuti il proprio necrologio in Parlamento, aggiungendovi la maledizione del condannato a morte nei confronti del proprio carnefice: «Dipende da lei, onorevole Bertinotti, il futuro dei malati cronici, dei lavoratori di Brescia, dei disoccupati del Sud».
È noto che Romano Prodi, oltre a indiscusse capacità, possiede una spettacolare dose di fortuna. E questa gli venne incontro all’ultimo istante. Accaddero simultaneamente due cose. I metalmeccanici della Fiom, l’ala dura della Cgil, spinsero per l’accordo e mandarono camion di militanti da Brescia per esercitare una pressione fisica su Bertinotti. «Il manifesto» accusò il leader di Rifondazione di fare il gioco di Berlusconi e titolò: Facciamoci del male. Nelle stesse ore il presidente del Consiglio francese, il socialista Lionel Jospin, propose la riduzione per legge dell’orario di lavoro a 35 ore. Prodi e Bertinotti presero insieme la palla al balzo: la legge finanziaria restava intatta e il governo si impegnava a far propria la proposta francese. Mi disse D’Alema per commentare la capriola di Bertinotti: «Portare fino in fondo una sfida e poi saperla capovolgere. Solo i grandi gesuiti e i comunisti riescono a farlo».
Evitata la crisi di governo, D’Alema si concentrò sul congresso del partito. In un clima tutt’altro che festoso, il 12 febbraio 1998 a Firenze il Pds si trasformò in Ds. La differenza stava nell’ingresso nella casa comune di figure rispettabili, ma di modesto peso politico, provenienti da partiti minori: i socialisti Giorgio Ruffolo e Valdo Spini, il cristiano sociale Ermanno Gorrieri, il comunista unitario Famiano Crucianelli, il socialdemocratico Gianfranco Schietroma e così via. Entrarono anche il segretario della Uil Pietro Larizza e l’ex leader della Cisl Pierre Carniti. Ma il rifiuto di Giuliano Amato di partecipare al progetto ne sancì in pratica il fallimento. Lo ammise lo stesso D’Alema: «È stata l’iniziativa ristretta» mi disse «di persone attente più a chiudere la storia trascorsa delle divisioni a sinistra che ad aprire una porta sul futuro».
E il Cavaliere scavalcò Fini sul comunismo…
Nel giro di due mesi celebrarono i loro congressi anche gli altri due principali partiti italiani. Cominciò Alleanza nazionale il 27 febbraio a Verona. «Il fascismo» mi disse Fini in volo verso il Veneto «l’abbiamo sepolto a Fiuggi nel 1995. A Verona parleremo di politica.» Concluse infatti il suo discorso congressuale con queste parole: «Alleanza nazionale non ha alcuna intenzione di utilizzare la storia e le tragedie del secolo che si sta chiudendo come un’arma impropria nella lotta politica quotidiana … Questo vale anche per la sinistra democratica e per tutte le formazioni centriste».
Pochi giorni dopo, il 14 marzo, dette prova della svolta incontrando il presidente della Camera Luciano Violante a Trieste, la città che, come abbiamo visto, era stata teatro dei più laceranti conflitti ideologici. Violante fece un passo che la sinistra italiana non aveva mai compiuto: affiancò per la prima volta le vittime delle foibe a quelle della Risiera di San Sabba. Fini gli dette atto della svolta e Pierluigi Battista poté annotare sulla «Stampa»: «Ancora una volta Fini ha assaporato il frutto della rilegittimazione, dello sdoganamento ormai compiuto … Non intende apparire revanscista, nostalgico, passatista».
Eppure, a Verona il Cavaliere gli mandò di traverso la festa. Spese di tasca sua 29.600.000 lire per comprare con un forte sconto da Mondadori 2500 copie del Libro nero del comunismo, edizione italiana di un volume pubblicato in Francia da un gruppo di storici autorevoli coordinati da Stéphane Courtois. Frase chiave del volume: «I regimi comunisti, per consolidare il loro potere, hanno fatto del crimine di massa un autentico sistema di governo». I numeri della carneficina: 20 milioni di morti in Urss, 65 milioni in Cina, 1 milione in Vietnam e via dicendo. In tutto, secondo Courtois, 100 milioni. Il libro, naturalmente, andò a ruba e il Cavaliere ne fece dal podio la seguente promozione: «La sinistra è ancora fatta degli uomini che hanno incensato l’ideologia dell’oppressione di massa, l’ideologia che la storia ha dimostrato essere responsabile di crimini contro l’umanità … Essi governano con metodi legati all’ideologia e usano i giudici amici per eliminare gli avversari politici». All’entusiasmo della platea, Fini rispose con il gelo. Sebastiano Messina, inviato della «Repubblica», gli sentì dire: «Ma come gli è saltato in mente a Berlusconi di venire a casa mia a darmi lezioni di anticomunismo?». L’indomani oppose al Cavaliere tre durissimi no. Non si può fare una politica anticomunista «perché in Italia il comunismo non c’è più». Le riforme vanno approvate «perché le chiedono gli italiani». «La separazione delle carriere dei magistrati non può essere pregiudiziale.»
… e fece saltare la Bicamerale
Berlusconi la prese malissimo. «Fini mi considera al tramonto» disse ai suoi più stretti collaboratori. «Immagina che le difficoltà della Bicamerale liquideranno la mia stagione politica. Ritiene che penda sulla mia testa come un macigno il rischio delle condanne giudiziarie, giudica imminente il mio ritiro. E allora vuole proporsi come interlocutore naturale di D’Alema e vuole fare con lui l’intesa costituzionale per spazzare via ogni residuo di pregiudizio antifascista che ancora frena una parte dell’elettorato moderato. Se il nuovo capo dello Stato sarà eletto direttamente dal popolo, Gianfranco vorrà candidarsi. Sarà battuto, ma diventerà al tempo stesso il leader del Polo.»
Naturalmente Fini non condivideva una parola di questo discorso e i rapporti tra i due restarono a lungo freddi. Era la giustizia a dividerli. Quando il 4 giugno 1997 il golpe della Lega aveva fatto passare inopinatamente il semipresidenzialismo in Bicamerale, il Cavaliere aveva fatto a Fini questo discorso: io ti seguo sul semipresidenzialismo, dettane tu le condizioni, per me andranno bene. Tu, però, seguimi sulla giustizia. E Fini aveva accettato.
Il Polo, con l’iniziale sostegno del Ppi che si leccava le ferite di Mani pulite, era favorevole alla separazione delle carriere dei pubblici ministeri da quelle dei magistrati giudicanti, come accade con diverse sfumature in tutto il mondo occidentale. Il Pds, tradizionalmente vicino all’ala radicale della magistratura, si era sempre opposto. In Bicamerale, tuttavia, si era raggiunto un faticoso compromesso: sarebbero stati istituiti due Consigli superiori della magistratura, in modo che – se non separate – le carriere dei magistrati requirenti sarebbero state almeno distinte da quelle dei magistrati giudicanti. Il 30 gennaio 1998, qualche giorno prima del congresso di An, Fini era inaspettatamente venuto incontro a D’Alema (l’associazione dei magistrati era imbufalita per l’accordo): si disse disponibile a rinunciare ai due Csm, purché venisse ridimensionato il peso delle correnti e dei pubblici ministeri all’interno dell’unico consiglio (pur essendo minoranza tra i magistrati, di fatto lo controllavano). Era nato l’asse Fini-D’Alema e il Cavaliere decise di far saltare il tavolo.
Diede un primo assaggio al presidente di Alleanza nazionale il 15 aprile, all’immediata vigilia del primo congresso di Forza Italia. Mi disse infatti in un’intervista per «Panorama»: «Il rischio è di non avere un sistema presidenziale e neppure un governo parlamentare. Ma allora c’è da chiedersi se non sia addirittura preferibile il sistema del cancelliere eletto in Parlamento con la proporzionale, lo sbarramento del 5 per cento e il premio di maggioranza». Altro fendente: «Fini, che è stato a lungo un miscredente delle riforme e della Bicamerale, un miscredente che io e io solo ho convertito, è diventato adesso … quasi un apostolo della Bicamerale. E qualche volta mostra di esserlo anche a prescindere dai contenuti. Forse pensa più ai vantaggi di una solenne e definitiva legittimazione che deriverebbero dal nuovo patto costituzionale al suo partito, che è stato appunto escluso dal vecchio patto costituzionale». Tra i due ci fu un chiarimento formale, ma la sorte della Bicamerale era segnata.
A differenza del secondo, che si sarebbe tenuto prima delle elezioni europee del 2004 e che fu piuttosto fiacco, il primo congresso di Forza Italia, che cominciò il 16 aprile 1998 al Forum di Assago, fu sbalorditivo. Accorsero 500 invitati e 550 giornalisti sicuri di vedere il Nulla. Non era Forza Italia un partito di plastica? Si trovarono invece dinanzi a 3500 delegati, eletti in 113 congressi provinciali e metropolitani. «Italiani brava gente», come scrisse Sandro Viola, che – dicono i sondaggi – hanno più fiducia della media italiana nella Chiesa e nelle forze di polizia, più in Mediaset che nella Rai, meno nelle forze politiche e nel sindacato. Soltanto il 20 per cento degli elettori di Forza Italia, in quell’aprile 1998, aveva fiducia nella magistratura: metà del campione nazionale.
In due ore di discorso pronunciato a braccio, Berlusconi incassò 122 applausi. Celebrò i padri fondatori della democrazia italiana, da De Gasperi a Einaudi, da Giuseppe Saragat a Ugo La Malfa. Attaccò il governo e la magistratura. Giurò ancora una volta sulla testa dei propri figli di non aver mai autorizzato il pagamento di tangenti alla guardia di finanza. Sarà un caso, ma Marina e Piersilvio, presenti al congresso con mamma Rosa, sfiorandosi il collo lo trovarono a posto. Gli increduli testimoni della serata scoprirono che il Cavaliere era più moderato del suo pubblico, che lo acclamò in un tripudio di tricolori affollando piazza Duono a Milano il 18 aprile, 50° anniversario della storica vittoria della Dc sul Fronte popolare. Fossero stati in 70.000 come stimava la questura, 300.000 come dicevano gli spettatori o una via di mezzo, che era forse la verità, a Milano – dissero gli esperti – una roba simile non s’era mai vista. «A Milano c’è stato un piccolo congresso fatto di nulla» commentò acido Prodi. E Berlusconi: «Il nulla ha riempito Milano».
Una settimana dopo la fine del congresso di Forza Italia, Berlusconi decise di far saltare la Bicamerale. «Silvio, stacchiamo la spina» gli suggerì lo stesso Giuliano Urbani, che ne era vicepresidente. Nelle prime due settimane di maggio il fuoco della Procura di Milano sul Cavaliere si intensificò e per questo si disse che Berlusconi aveva voluto chiudere la partita prima che gli piovessero addosso pesanti richieste di condanna. D’Alema si mostrò di questo avviso: «Berlusconi separi le riforme dalle sue vicende personali» disse a «Porta a porta». «Il “patto della crostata” è ragionevole, io lo difenderò.» Per difenderlo, all’ultimo istante utile i Ds proposero che il capo dello Stato presiedesse il Consiglio dei ministri su questioni di politica estera. I popolari, non informati, si infuriarono. Ma ormai era tardi. Il 27 maggio Berlusconi annunciò il voto contrario di Forza Italia al compromesso sui poteri del capo dello Stato. Il 2 giugno la Bicamerale chiuse. «Il Parlamento registra una sconfitta» commentò D’Alema.
Berlusconi fece saltare il tavolo perché giudicava inaccettabile un patto costituzionale tra Fini e D’Alema sulla propria testa. Certamente, egli puntava a indebolire la corporazione dei magistrati con la divisione delle carriere e la retromarcia di Fini l’aveva spiazzato. Tuttavia, mi disse Cesare Salvi – altro protagonista di quelle giornate per i Ds –, non era la mancata soluzione politica delle proprie vicende giudiziarie ad aver consigliato al Cavaliere il passo decisivo quanto l’aver constatato che, alla fine del lungo percorso costituzionale, il Polo non sarebbe tornato al governo con una «grande coalizione», la sua leadership non si sarebbe rafforzata, il suo ruolo istituzionale non sarebbe stato riconosciuto da tutti e il suo elettorato guardava alla vicenda con modesto coinvolgimento.
Berlusconi «N», come Nemico
La scrittura comune della Carta fondamentale di uno Stato presuppone il pieno riconoscimento reciproco delle parti. Per i sostenitori della fazione opposta, Bush e Kerry, Zapatero e Aznar, Blair, Chirac, Schroeder sono avversari. In Italia, Fini, Casini, Follini e anche Bossi sono avversari della sinistra. Soltanto Berlusconi è il Nemico. Tutto questo falsa i ruoli della nostra democrazia e rende terribilmente complicati i rapporti tra i due schieramenti.
Tra i primi a segnalare i pericoli di questa situazione che si protrae ormai da dieci anni fu nel 1998 Edmondo Berselli, uomo di sinistra. Berselli scrisse su «Liberal» un articolo intitolato Il fattore N., il cui sommario recitava: «N come nemico. È la pietra angolare su cui si fonda lo spirito giacobino-gauchista. Berlusconi è solo l’ultimo della serie. Prima di lui c’erano gli amerikani, la P2, Gladio, Craxi, Belzebù, i Padroni, la Mafia, i Servizi e tutte le Forze Oscure della Reazione in Agguato». Berselli notava che, dopo il memorabile aggancio dell’euro, il governo Prodi era stato colto da una sorta di apatia e l’Ulivo sembrava una parentesi. Cominciava dunque ad avvertirsi a sinistra «la tentazione irresistibile di assecondare la liquidazione del nemico per via giudiziaria. È la scorciatoia classica. Si prende Berlusconi e lo si colloca in una nicchia intoccabile come sintesi del male».
Vedremo nei prossimi capitoli come il ritorno del Cavaliere al governo nel 2001 abbia ingigantito questo problema, indipendentemente dalle vicende giudiziarie. Nei primi cinque anni della vita politica di Berlusconi l’attacco sferrato contro di lui dalla Procura di Milano è stato formidabile: 97 persone a vario titolo riconducibili all’area Fininvest sono state coinvolte in 70 procedimenti penali «rilevanti» per un totale di 363 posizioni processuali, se si sommano le posizioni di ciascun soggetto in ciascun procedimento. Sono stati esaminati 150 conti correnti in 50 banche italiane e straniere, e sequestrati 173 libretti al portatore. Nello stesso periodo, polizia giudiziaria e tributaria hanno compiuto nelle aziende del gruppo Fininvest 450 tra perquisizioni e sequestri, esaminando circa 1 milione di pagine di documentazione aziendale. Fra il 1993 e il 1996 è stato chiesto l’arresto di 26 persone, mentre a metà 1999 ne risultavano assolte 27.
Perché tutto questo è cominciato con la discesa in campo del Cavaliere, visto che qualche mese prima non c’era niente a suo carico? Quando lo chiesi a Borrelli, il procuratore mi rispose sostenendo che, quando una persona appare sul proscenio, è più facile che arrivino informazioni sul suo conto. Una notte dell’estate 1998, a Cortina, Piercamillo Davigo mi illustrò magistralmente questa tesi con l’apologo del topo con le corna. «Un gruppo di topi viveva beato. Poteva mangiare formaggio a volontà. Perché nel magazzino dove viveva c’era un buco a rappresentare sempre una provvidenziale via di fuga. Il buco era comodo, ma sufficientemente piccolo perché un gatto non potesse entrarvi. Un giorno un topo più intraprendente degli altri disse che gli sembrava giusto distinguersi dal gruppo. E si applicò un paio di nobili corna affinché i suoi compagni potessero riconoscerlo sempre. Ma quando si trattò di scappare all’arrivo del gatto, tutti i topolini entrarono nel buco, tranne il topo più in vista. Le corna, infatti, lo frenarono e il gatto ne fece un solo boccone.» Senza mai nominare Berlusconi, Davigo ne tracciò un perfetto identikit giudiziario.
Le prime sentenze nei processi contro Berlusconi furono tutte di condanna. Un anno e quattro mesi (condonati) per falso in bilancio su un fondo nero per l’acquisto di Medusa Cinematografica. Due anni e quattro mesi per i 22 miliardi usciti nel 1991 dalla società estera All Iberian. L’accusa disse che si trattava di un finanziamento illecito a Craxi, mentre la difesa sostenne che la società era estranea alla galassia Fininvest e che i soldi sarebbero andati a un produttore cinematografico che li avrebbe girati alla causa palestinese. (Nel mondo politico si sa che quei soldi andarono ad Arafat. Il Cavaliere fu invitato da Craxi a sostenere il leader dell’Olp, il quale era così legato al leader socialista italiano che nell’ottobre 1999 gli offrì addirittura un passaporto diplomatico per garantirgli la libera circolazione internazionale. Dopo la tragedia delle Torri Gemelle lo stesso Berlusconi, pur essendo amico di Bush e degli israeliani, da presidente del Consiglio propose agli alleati occidentali un Piano Marshall per togliere una volta per tutte la Palestina dal sottosviluppo endemico.) Il reato contestato a Berlusconi fu dichiarato prescritto nel 1999.
La terza condanna (due anni e nove mesi) arrivò per le tangenti alla guardia di finanza alle quali si riferiva l’invito a comparire inviato al presidente del Consiglio mentre presiedeva la conferenza dell’Onu a Napoli. Feci osservare a Davigo che, per quel tipo di reato, la condanna media è di diciotto mesi, e lui si disse d’accordo. Ma mi spiegò che Berlusconi ne aveva avuti quasi il doppio per il suo comportamento processuale, destando la meraviglia di un suo amico magistrato che assisteva al nostro colloquio e che gli fece notare come fosse del tutto anomalo non aver concesso a un imputato incensurato le attenuanti generiche.
Quella notte dissi a Davigo che, dei quattordici procedimenti giudiziari avviati fino a quel momento contro Berlusconi, un episodio minore mi aveva convinto della persecuzione giudiziaria contro il Cavaliere: il processo per il pagamento in nero del calciatore milanista Gianluigi Lentini. Nel 1991 la Juventus aveva comprato dal Torino Dino Baggio pagando 6 miliardi sottobanco. Si scoprì che la somma era stata erogata «dalla persona fisica (e da ente a costui facente capo) dell’avvocato Giovanni Agnelli». Niente falso in bilancio, dunque, e proscioglimento generale. La Fininvest – ente facente capo a Silvio Berlusconi – fece la stessa cosa con Lentini. Ma qui ci fu il rinvio a giudizio per falso in bilancio.
La caduta di Prodi, D’Alema a palazzo Chigi
Il governo Prodi cadde il 9 ottobre 1998. Fu un omicidio-suicidio combinato. L’omicida fu Bertinotti. Il suicida Prodi, che si ostinò a rischiare la fiducia giocando su un solo voto di margine e a non chiedere a Francesco Cossiga l’aiuto che fu poi decisivo per l’insediamento di Massimo D’Alema a palazzo Chigi. Prodi è peraltro convinto di aver agito bene. «Non sono affatto pentito di aver chiesto quel voto di fiducia» mi disse nell’autunno del 2003 nel suo ufficio di Bruxelles «e nemmeno di aver rifiutato l’aiuto di Cossiga. Avevo pesato bene le conseguenze di quel gesto. Sarebbero cambiate le condizioni. Ricordiamo cosa diceva Cossiga: offro aiuto per distruggere…»
Nel maggio 1998 Prodi era riuscito a portare l’Italia nell’euro. Mi disse l’anno successivo Carlo Azeglio Ciampi, appena insediato al Quirinale: «L’anomalia maggiore del bilancio italiano era che noi pagavamo il doppio dei tassi d’interesse degli altri paesi. Allora dicemmo: riduciamo il disavanzo al netto degli interessi, facciamo cioè risanamento sostanziale. Procuriamoci così la fiducia dei mercati. Questa procurerà a sua volta un abbassamento dei tassi d’interesse e così via. Quando formai il mio governo nel 1993, l’Italia pagava interessi di sei punti maggiori di quelli francesi e tedeschi. Adesso paghiamo quanto loro».
Come abbiamo detto, doppiato il capo dell’euro, le vele del governo si sgonfiarono di botto. Nell’estate, Bertinotti decise di aprire la crisi, a costo di una traumatica scissione con Armando Cossutta. «Fausto restò ferito psicologicamente dal fatto che la ricomposizione del 1997 era apparsa frutto della mia saggezza» mi raccontò Cossutta. «Da allora, non l’ho mai visto una sola volta chiudere una discussione facendo considerazioni diverse da quelle che aveva esposto all’inizio. Questo prendere o lasciare ha portato, passo dopo passo, alla lacerazione.» Scalfaro, nella sua proverbiale neutralità, li chiamò entrambi al Quirinale, ventilando che la crisi avrebbe forse portato a elezioni anticipate e alla prevedibile vittoria del Polo. Ma Bertinotti questa volta non cedette e il 6 ottobre Cossutta annunciò la scissione a «Porta a porta» in un tripudio di bandiere rosse. Il 9 i deputati fedeli a Bertinotti votarono contro il governo, sfiorando lo scontro fisico con gli ex compagni. Nella direzione del partito si divisero anche gli impiegati: la segretaria di Bertinotti andò con Cossutta, e viceversa.
Da Buenos Aires D’Alema invitò Prodi ad accettare i voti di Cossiga, che aveva fondato un partito, l’UdR, al quale fu lesto ad aggregarsi Clemente Mastella, lasciando il Polo. Prodi si rifiutò. Sperava di vincere con 314 voti contro 313, e perse invece con lo stesso scarto, 313 contro 312. Era convinto di andare alle elezioni anticipate come leader dell’Ulivo, ma trovò sulla propria strada D’Alema e Marini.
Prodi, all’inizio, rifiutò il reincarico offertogli da D’Alema (e questi rifiutò le condizioni postegli da Prodi), ma quando seppe che il segretario dei Ds era andato a proporre l’incarico a Ciampi e questi aveva lestamente steso la lista dei ministri, ebbe un ripensamento e si ricandidò. D’Alema e Marini lo costrinsero a sottoscrivere una dichiarazione che metteva fine alla maggioranza uscita vittoriosa alle elezioni del 21 aprile 1996, lanciava l’appello a Cossiga rifiutato qualche giorno prima e azzerava la lista dei ministri per far posto agli uomini dell’UdR. Appena l’accordo fu firmato, Cossiga lo mandò all’aria: gli ulivisti avevano fatto una riunione dell’Ulivo e questo era inaccettabile.
Era il 14 ottobre 1998. Quella notte stessa Marco Minniti andò a trovare Franco Marini negli uffici del Ppi in piazza del Gesù: «Franco, non ne usciamo. Dobbiamo mettere in campo D’Alema». Due giorni dopo, per la prima volta una personalità eminente del vecchio Partito comunista italiano riceveva l’incarico di formare un governo. Nella distribuzione dei ministeri, D’Alema s’appellò all’infallibile «manuale Cencelli», così chiamato dal nome del funzionario democristiano che nel 1968 stabilì scientificamente il peso dei diversi ministeri da distribuire tra le diverse correnti. D’Alema assegnò metà dei portafogli al proprio partito e alla sinistra. Dell’altra metà, il 50 per cento andò ai popolari, il 33 all’UdR, il 17 a Dini. Walter Veltroni diventava segretario dei Democratici di sinistra. Tre fedelissimi di Prodi (Enrico Micheli, Enrico Letta e Paolo De Castro) entrarono nel governo. Quando, nel primo giorno di lavoro a palazzo Chigi, gli chiesi quale fosse il sentimento prevalente, D’Alema mi rispose: «La paura».